Imparare a giocare a scacchi non è affatto facile. Come nella vita, è illusorio pensare che si possa scoprire il modo migliore di agire in poco tempo e senza fatica. La didattica scacchistica ha sempre cercato di farlo in modo molto stimolante, ma con risultati spesso deludenti.
La scuola classica
Classicamente, chi insegnava scacchi si avvaleva delle opere e degli insegnamenti dei grandi giocatori dell’anteguerra e i testi classici erano Il mio sistema (Nimzowitsch) o Il centro partita (Romanovsky), sostenuti da altri contributi (Capablanca, Euwe, Kotov ecc.). Tutti coloro che scrivevano libri di scacchi (in Italia ricordiamo il grande Enrico Paoli) si rifacevano ai classici cercando di riproporre gli stessi concetti in modo più moderno. I risultati erano però mediocri e nessuno riusciva a dire qualcosa di veramente “nuovo”.
Che le (poche) regole classiche non servissero a molto se ne erano già accorti i giocatori meno quotati, gli amatori. Infatti, arrivati attorno a un punteggio Elo sui 1800 punti, molti di loro non riuscivano ulteriormente a progredire; chi ci riusciva impegnava ingenti risorse di tempo nello studio, risorse che alla fine non giustificavano il miglioramento avuto.
In definitiva appariva chiaro che le regole classiche erano troppo poche e troppo valutate per poter risolvere gran parte delle situazioni pratiche: spesso il giocatore intermedio si trovava nella condizione di non riuscire ad applicarne nessuna, la classica situazione in cui “non si sa cosa fare”.
L’avvento dei computer ha messo ulteriormente in crisi la scuola classica: come era possibile che un oggetto senza intelligenza che si limitava a calcolare varianti su varianti potesse battere giocatori anche molto forti? Le regole non servivano più? Come era possibile che dopo aver controllato la colonna aperta, aver posizionato un Cavallo in un avamposto o aver indebolito un pedone avversario (in base alle regole classiche), si perdesse lo stesso la partita?
A questa situazione si è risposto in due modi diversi.
La scuola “senza regole”
Una possibile risposta al problema visto nel paragrafo precedente è che gli scacchi sono così creativi (complessi) che è assurdo pensare che ci siano regole che ci possano aiutare. Secondo Suba, l’unica regola è che non ci sono regole. Questa posizione potrebbe sembrare molto disincentivante per chi decide di giocare a scacchi perché l’abilità nel gioco sarebbe derivante da fattori difficilmente modificabili in tempi brevi come creatività e studio. Il grande campione sarebbe un soggetto dotato di grande intuito scacchistico che ha dedicato la vita a studiare la teoria delle aperture, i finali ecc. Basta che manchi una delle due condizioni e il giocatore resta un mediocre.
In realtà, la posizione di Watson e Suba è molto più concreta di quanto si pensi. Già nel 1994 il MI Silman introdusse il concetto di squilibrio (Teoria e pratica degli squilibri), relativizzando l’importanza delle regole e riconducendo gli elementi della posizioni a generatori di squilibri che davano o meno il vantaggio a una delle parti. Era il primo tentativo di collegare le regole fra di loro: per esempio in una determinata posizione il Bianco ha una colonna aperta, ma il suo Re è molto esposto: quale dei due fattori è più importante?
Con l’avvento dei computer (da Fritz 8 in poi, con una forza di gioco paragonabile a quella di un Grande Maestro su un normale personal computer) si dimostrò esatta l’osservazione di Suba: “i libri sul centro partita insegnano solo a battere avversari molto più deboli di noi, cioè quelli che ci lasciano accumulare in santa pace tutti i vantaggi posizionali possibili e immaginabili, senza neppure far finta di creare un qualche controgioco”. In effetti, oggi chiunque può analizzare le partite raccolte nei testi classici e scoprire che Suba aveva ragione. Gli esempi presenti sono quasi tutti poco significativi (chiameremo questa situazione “critica di Suba”) perché:
- il perdente ha perso perché ha agevolato in tutto e per tutto l’avversario (come indica Suba), esempio ingenuo;
- il perdente non ha eseguito una o più mosse decisamente migliori; esempio fuorviante.
Nei due casi la regola alla base dell’esempio può essere interessante, ma sicuramente molto meno decisiva di quanto volesse far supporre l’autore. Avendo scritto il suo libro quando “i computer giocavano peggio di un qualunque tassista russo” (la frase è di Kortschnoj), lo stesso Silman porta moltissimi esempi (tutti tratti, con un po’ di megalomania, da sue partite vinte) non significativi. Anche Watson, seppur in misura inferiore, pone il piede in fallo alcune volte (il suo libro è del 1998); in ogni caso il suo testo dà uno scossone quasi mortale alle regole classiche.
La scuola neoclassica
Oggi Mark Dvoretzky è sicuramente riconosciuto come il miglior didattico degli scacchi. Purtroppo le sue opere sono rivolte a giocatori dai 2200 punti Elo in su e in un certo senso danno per scontato il discorso (non affatto banale!) che sta alla base. Il grande pregio di Dvoretzky è stato comunque quello di unire ai principi classici una profonda analisi che gli ha permesso, a differenza di altri didattici, di evitare almeno in parte (ma non del tutto!) l’ottimismo didattico.
Sicuramente ottenere i risultati da lui raggiunti senza l’ausilio di mezzi informatici deve considerarsi sbalorditivo. Questi risultati hanno fatto sì che l’eredità dei classici fosse rilanciata da alcuni interessanti istruttori come Aagaard, in forte polemica con Watson. Secondo Aagaard (Il perfezionamento dello scacchista, 2001), ragionare in termini di principi assicura dei benefici notevoli. Nella sua opera Aagaard si dà da fare per dimostrare che le regole sono importanti, ma francamente dopo un’attenta lettura non convince. Innanzitutto non le tratta in dettaglio, forse rifacendosi ai classici, ma lasciando al lettore veramente poco per quel che riguarda la comprensione strategica della posizione, tant’è che le gemme del suo comunque interessante libro non derivano dalla polemica con Watson, ma dalla sua esperienza personale e, più che regole, sono “indicazioni”.
Personalmente penso che la volontà di affidarsi a regole non sia che l’umana propensione a semplificare ciò che è complesso per controllarlo meglio, spesso un’illusione che non è che una scorciatoia per una strada a fondo chiuso: del resto non esiste nessun testo di strategia scacchistica la cui sola lettura può far migliorare di 100 punti Elo un giocatore che è già attorno ai 1800 punti Elo. Sarebbe bello, ma senza uno studio approfondito e diversificato e un’esperienza e una pratica costanti non si va lontano.
Dal percorso Silman-Watson (Suba)-Aagaard può uscire una visione molto moderna degli scacchi, la scuola dinamica.
Nella recente riedizione della sua opera Suba cerca di introdurre la strategia dinamica negli scacchi, ma francamente il testo, pur essendo di piacevole lettura, non spiega chiaramente cosa siano il dinamismo, il potenziale dinamico ecc. Alla fine il lettore ha la sgradevole sensazione che gli scacchi siano ancora qualcosa di terribilmente oscuro.
Analogamente, Dofrman con il suo metodo tenta di introdurre il giocatore alla valutazione dinamica della posizione. Purtroppo anche Dorfman non è riuscito a speigare esattamente cos’è il dinamismo, anche perché molti suoi esempi sono frammenti di partite nei quali i motori evidenziano chiari errori.
Nonostante ciò, la posizione di Suba e di Dorfman è importante se si ha il coraggio di legarla ai concetti classici, ridimensionandoli. Si veda Gli scacchi dinamici per comprendere appieno l’importanza di questa rivoluzione.